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TAVOLI DI LAVORO – INCONTRO NAZIONALE GENUINO CLANDESTINO – ROMA – 17 Maggio – dalle ore 9.30 alle 13,00 e dalle 15,00 alle 17,30

I seguenti tavoli tematici sono coordinati da realtà che lavorano già da tempo sui vari territori, in alcuni casi realtà che si incontrano per la prima volta a Roma per dialogare, condividere azioni e prospettive, in altri casi da soggetti e realtà che vogliono far partire un confronto sulla tematica proposta.

Ogni tavolo dovrà finalizzare e indirizzare la discussione con l’obiettivo generale di proporre e prospettare azioni e percorsi comuni tra le varie soggettività e reti territoriali presenti, interessate e attive su quel tema. Si chiederà anche di contribuire concretamente a definire il percorso di avvicinamento, preparazione e azione prima, durante e dopo l’Expo 2015.

Il metodo che proponiamo è finalizzato alla massima partecipazione dei presenti e, nel contempo, alla redazione di report di sintesi istantanei che verranno poi esposti nella piazza del mercato per essere socializzati con chiunque abbia voglia di leggerli!

1. Terra Bene Comune: alleanze e sinergie tra le lotte in campagna e quelle in città (scarica il pdf)

2. Costruire Comunità: riappropriarsi e rideterminare i territori (scarica il pdf)

3. L’agricoltura e le minacce globali: dai Regolamenti Europei ai Trattati di libero scambio EU/US (TTIP) all’EXPO 2015 (scarica il pdf)

4. La compatibilità del contadino oggi: vecchie e nuove resistenze (scarica il pdf)

5. OGM: tutela biodiversita e sovranità alimentare (scarica il pdf)

6. Il lavoro bracciantile ed il caporalato in agricoltura (scarica il pdf)

7. L’allevamento: una sfida di compatibilità economica per un cibo sano (scarica il pdf)

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PROPOSTE DI DISCUSSIONE PER I TAVOLI DI LAVORO

1. Terra Bene Comune: alleanze e sinergie tra le lotte in campagna e quelle in città

A livello globale, dal 2008 ad oggi, il processo di accaparramento di terre da parte di imprese multinazionali, governi stranieri, nuovi attori finanziari pubblici e privati ha subito una forte accelerazione a causa della convergenza tra crisi finanziaria, alimentare, energetica e climatica, portando alla trasformazione della terra, tradizionalmente non un tipico bene d’investimento, in una risorsa fondamentale su cui prendere il controllo il più velocemente possibile.

Anche in Italia, dove questo processo è in atto già da tempo attraverso la concentrazione dei terreni agricoli in grandi proprietà, attraverso le speculazioni edilizie e la cementificazione selvaggia, la terra è continuamente sotto attacco da vari fronti, e con gli obiettivi più svariati: per coltivare cibo o agro-combustibili su scala industriale, per installare progetti estrattivi, impianti per la produzione di energia o di smaltimento rifiuti, per costruire infrastrutture e grandi opere di dubbia utilità, per sviluppare turisticamente una zona o per espandere città.

E quindi centrali a biomassa che sorgono come funghi, centrali a biogas, biodigestori, termovalorizzatori, termodistruttori, inceneritori, centrali a carbone, centrali geotermiche, autostrade, gasdotti, rigassificatori, parchi eolici. Opere sempre presentate come strategiche, sempre necessarie, sempre indispensabili, ma che rispondono  alla stessa logica del profitto, impositiva e replicata pressocchè ovunque, di saccheggio della ricchezza collettiva a favore dei mercati e degli interessi di pochi.

In questo quadro, non solo la terra viene svuotata di una delle sue originarie vocazioni, quella agro-alimentare, ma alle comunità locali che la abitano viene impedito di esercitare la sovranità sui propri territori, deprivandoli del diritto di decidere come organizzare e gestire il proprio ambiente di vita. Così le economie locali vengono così compromesse, il tessuto socio-culturale e la stessa identità e sopravvivenza di un territorio sono messe a repentaglio.

Nonostante si cerchi di criminalizzare e spesso reprimere chi si oppone a questi soprusi, continuano a nascere una mobilitazioni dal basso, spesso in grado di mettere in discussione non solo lo specifico per cui sono nate, ma l intero modello di sviluppo e i propri stili di vta.

Per contribuire a costruire una larga opposizione a tutto questo, Genuino Clandestino ha lanciato la campagna Terra Bene Comune con l’obiettivo di rivendicare la vocazione agricola alimentare della terra, difendere e promuovere l’agricoltura contadina, di piccola scala e biodiversificata e in grado di salvaguardare l’ambiente e gli equilibri sociali, nonchè di costruire un’alleanza fra movimenti urbani, singoli cittadini e movimenti rurali, per riconnettere città e campagnae sostenere le comunità in lotta contro la devastazione dei territori.

Partendo dalla consapevolezza che, a livello locale, la custodia della terra agricola come bene comune non può non coincidere con il cammino per la difesa dei territori, per la riappropriazione degli spazi a uso comune, per la restituzione dei beni collettivi alla loro funzione sociale, per la tutela di un lavoro dignitoso, per il diritto a decidere delle proprie vite, a salvaguardare la propria salute, a gestire le proprie risorse, Genuino Clandestino invita reti, comitati, reti, movimenti sociali a partecipare alla prossima assemblea nazionale a Roma.

  1.  Come moltiplicare le alleanze e attivare sinergie per ricongiungere realtà contadine e cittadine nella resistenza per la difesa dei territori?
  2. Che cos’è la terra? Cosa farne? Chi decide e chi ha il diritto a farlo? Come costruire nuove forme di equonomia sui nostri territori?

2. Costruire comunità, riappropriarsi e rideterminare i territori

Le esperienze di Caicocci e Mondeggi hanno riaperto la speranza e la  possibilità dell’alternativa laddove il Potere aveva  lasciato abbandono e degrado e si apprestava a privatizzare.  Sono esperienze che hanno saputo costruire una partecipazione  forte, che hanno riscosso simpatie e favori anche nei media locali, che stanno  coniugando il fare e il pensare, che stanno  per la prima volta declinando il motto “Terra Bene Comune”. Ciò  nonostante  sono esperienze fortemente a rischio. innanzitutto a rischio repressivo, per la disobbedienza civile che è stata praticata riaprendo, custodendo,  vivendo e coltivando quelle terre e quei casali.   L’altro rischio che percepiamo, come contadin@ ribelli che partecipiamo,  è che tutta questa lotta arrivi al massimo risultato di un bando pubblico  d’assegnazione: cioè logiche clientelari, criteri d’assegnazione legati a  imprenditorialità spinta, cammini istituzionali, negazione del diritto a vivere  sulla Terra e dell’agricoltura contadina.

1.  Come possiamo configurare pratiche, progetti e percorsi che ci consentano di  fare di Caicocci e di Mondeggi (e di altri luoghi) delle terre  beni comuni dove si costruiscano relazioni sociali, economiche, produttive al  di là del capitalismo, dove si contribuisca alla sovranità alimentare dei  territori, dove si eroghino servizi che oggi l’austerity nega? Come possiamo  fare ciò senza essere spazzati dalla repressione, invischiati nelle scorciatoie  istituzionali,  o affogati dall’orizzonte del massimo obiettivo del bando pubblico?

2.  La riappropriazione diretta delle terre è una pratica di tanti movimenti  contadini globali. Spesso le terre recuperate poi vengono gestite  in maniera collettiva e con l’orizzonte della sovranità alimentare. Può essere questo della riappropriazione diretta un cammino  percorribile anche nell’Italia e nell’Europa attuale?
E poi, vincolare la riappropriazione diretta alla gestione collettiva e  assembleare può essere un’opzione valida per far si che i territori  recuperati dall’abbandono e liberati dalla privatizzazione e dalla speculazione diventino davvero beni comuni o terre sociali?

 

3. L’agricoltura e le minacce globali: dai Regolamenti Europei ai Trattati di libero scambio EU/US (TTIP) all’EXPO 2015

Agricoltura da EXPO-rtazione? No, grazie!

In Europa 500 milioni di cittadini mangiano tutti i giorni e chiedono all’agricoltura e all’industria agroalimentare di provvedere. Questi settori generano 46 milioni di posti di lavoro e il 6% del PIL europeo. Lo fanno, però, sempre più per esportare piuttosto che per darci da mangiare. La spirale è spietata e perversa: dipendiamo dalle esportazioni per approvvigionarci di materie prime alimentari a costo e qualità sempre più bassi e trasformarle nel cosiddetto Made in Italy agroalimentare.

Sempre meno imprese, sempre più concentrate, lo vendono a consumatori ricchi fuori dal Paese, perdendo sempre più posti di lavoro nelle nostre campagne che lentamente si spopolano e cedono alla speculazione edilizia. Nel 2013 in Italia a fronte di un calo dei consumi pari al 3,1 per cento si è verificato – secondo dati Coldiretti – un aumento del 4,7 per cento delle esportazioni per un totale di 33,4 miliardi di euro.

E’ questo il modello di produzione e consumo di cibo che ci propone EXPO 2015: l’esposizione universale che sbarca a Milano lasciandosi alle spalle una scia evidente di marketing selvaggio, oltre che di corruzione e cementificazioni indiscriminate legate alla sua costruzione e a quella delle infrastrutture connesse, che sno andate a compromettere aree a vocazione agricola – in primo luogo quella dove sorge la Cascina Triulza che ospiterà le attività della cosiddetta Società civile.

EXPO 2015, che ha come slogan “sfamare il pianeta, energia per la vita”, mette in mostra il paradigma del modello di agrobusiness cui Genuino clandestino si oppone. Un’agricoltura concepita sugli stessi criteri dell’industria pesante e bellica, a spese dei beni comuni, dell’occupazione, dei diritti, dell’ambiente e della qualità della vita di tutti noi gonfia le tasche di pochi grandi gruppi economico-finanziari.

Per facilitare l’imposizione di questo modello su tutta la produzione di cibo del pianeta, le istituzioni internazionali e gli Stati nazionali stanno favorendo dagli anni Ottanta massicce campagne di liberalizzazione commerciale che – bloccate da molti anni all’Organizzazione Mondiale del Commercio, anche grazie ad un intenso lavoro di opposizione, protesta e pressione dei movimenti e delle forze sociali organizzate – proliferano oggi nei negoziati “faccia a faccia” tra Europa, Stati Uniti, Paesi emergenti e Paesi poveri. EPAs – gli Economic Partnership Agreements tra Europa ed ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico – DCFTAs – i Deep and Coomprehensive Free Trade Agreements tra Europa e Paesi della primavera araba – gli accordi con Peru e Colombia, quelli con la Korea, quelli con i Paesi asiatici e anche i tentativi fatti con India e Cina, vanno tutti nella stessa direzione: abbattere tutte quelle regole, quei diritti, quelle garanzie che ci siamo conquistati con anni di lotte e di dialettica democratica in cui la campagna e i contadini hanno giocato un ruolo spesso determinante.

Il mantra che ripete la Commissione europea, supportata dal Fondo monetario internazionale, anche nella nuova bozza di Comunicazione che sta per pubblicare sul “Ruolo del settore privato per una crescita inclusiva e sostenibile dei Paesi in via di sviluppo” è che sarà il settore privato, con i suoi capitali e i suoi profitti, ad avere i soldi necessari a sfamare i nove miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050. E che dobbiamo rendergli il compito quanto più facile possibile, costi quel che costi.

La minaccia più grave che stiamo vivendo è quella che si nasconde nel TTIP: il trattato di liberalizzazione commerciale e degli investimenti che gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno negoziando in gran segreto dal giugno 2013. Questo trattato prevede non soltanto l’abbattimento di dazi e dogane, come proprio di un trattato commerciale, senza troppo chiedersi quali ne saranno le conseguenze sui tessuti produttivi, sociali e ambientali delle due sponde dell’Oceano. Esso, infatti, si propone anche di abbattere tutti gli standard, i requisiti di qualità, di sicurezza e il principio di precauzione rispettato in Europa – che mette fuori gioco da noi carne agli ormoni, pollo al cloro, ma anche gli Ogm; e di proteggere i diritti degli investitori, permettendo alle imprese di citare in giudizio gli Stati che dovessero danneggiare i loro interessi anche per proteggere i diritti e la salute dei propri cittadini, non nei tribunali ordinari ma in appositi collegi arbitrali che risponderebbero solo sulle regole poste dal trattato, ignorando le normative nazionali.

4. La compatibilità del contadino oggi: vecchie e nuove resistenze

” GLI UOMINI MAGIAVANO CIO’ CHE ESSI NON AVEVANO COLTIVATO. PIU’ NESSUN VINCOLO LI LEGAVA AL LORO CIBO ”
(da “Furore” di John Steinbeck)

Più volte nella storia di tutti i tempi e a tutte le latitudini la” legge del più forte ” ha privato gli uomini e le comunità locali del diritto di autodeterminarsi nel loro fabbisogno alimentare allo scopo di ottenere profitti e potere .

Attraverso vari sistemi ,dai più violenti e brutali ai più sofisticati e ingannevoli la terra e il suo possesso sono stati sottratti a chi ne treva cibo a vantaggio di chi ne traeva profitti.

LA PAROLA D’ORDINE E’ DECONTADINIZZARE IL TERRITORIO .

Molti sono stati i modi che hanno portato alla cancellazione della figura del contadino.
E’ stata, ed è ancora a certe latitudini , usata la forza e la violenza , si è usata l’arma dell’inganno e
del ricatto ed infine, ultimo e più sofisticato, si è fatto in modo di creare una cultura per la quale lasciare la terra significava “progredire” , “emanciparsi” passare da una condizione simile a quella degli animali per andare verso il “progresso” e il “benessere”.
E’ vantaggioso trasformare i contadini in braccianti o meglio ancora migranti che possono aspirare a diventare cittadini/consumatori ,sempre più concentrati in grandi agglomerati urbani con l’ unica possibilità di sopravvivenza rappresentata dall’ottenimento di un compenso per la vendita della propria forza lavoro , ammesso che ci sia chi è disposto a comprarla.

In un contesto come il nostro di oggi essere contadino, praticare un’agricoltura di sussistenza, volta all’ottenimento del cibo per noi stessi e per la propria comunità , vivere di una economia di piccola scala dove il principale reddito consiste nelle relazioni e nello scambio in un clima di solidarietà e di condivisione è un atto rivoluzionario , di “resistenza” .

  •  Quali sono nella nostra realtà economica le forme più efficaci e fantasiose per creare sistemi autonomi dove mettere in pratica il vivere contadino in resistenza?
  •  Come meglio creare alleanze e coinvolgere coloro che nelle nostre città cominciano a sentire la pesantezza di essere “consumatori” e quindi “polli di allevamento” nella consapevolezza di appartenere ad un sistema immorale e privo di rispetto per l’uomo,gli animali e la terra , con contraddizioni e ingiustizie sociali sempre più evidenti ?
  •  Come difendersi da un sistema che nel tentativo di riciclare se stesso e la propria immagine ruba contenuti e risorse umane a chi lo contesta e tenta di cambiarlo ?
  •  Come individuare chi veramente aspira ad un cambiamento sincero da chi pratica una più o meno organizzata “gestione del dissenso” allo scopo di neutralizzarlo e di svuotarlo di significato,possibilmente guadagnandoci sopra ?

5. Ogm: tutela della biodiversità e sovranità alimentare

 L’uso degli Ogm (Organismi geneticamente modificati) è l’ennesima soluzione che le multinazionali propongono a problemi che esse stesse hanno creato. Le multinazionali dell’agrochimica, infatti, per affermare il loro monopolio hanno brevettato il materiale genetico, accreditandosi come inventori e rendendo legale il sopruso sula natura e illegale la sua tutela, come lo scambio e la conservazione delle sementi antiche e autoctone

 Ciò che sta avvenendo in Friuli Venezia Giulia, è paradigmatico, diversi agricoltori hanno seminato e continuano a seminare OGM, illegalmente ma impuniti.

L’attuale sistema agroindustriale ha un ruolo fondamentale nel dissesto ecologico in cui versa il nostro pianeta. Per produrre cibo si consumano più risorse energetiche, idriche e naturali di quante poi vengono reimmesse nel ciclo vitale della Terra, portando con sé inquinamento, riduzione della biodiversità e gravi problemi sociali, contribuendo in modo sostanziale al Riscaldamento Globale.

La questione degli Ogm, è direttamente connessa alla necessità di un cambiamento delle relazioni sociali ed economiche nella loro globalità, guardando a produzioni alimentari proporzionate ai reali bisogni dei territori e a favore di un agire produttivo rispettoso della natura, oltre che dei diritti dei piccoli agricoltori.

A partire da queste considerazioni sugli Ogm, l’invito è di individuare delle linee di un agire collettivo finalizzato a scardinare le logiche dell’agroindustria, il No OGM e’ un netto No a questa agricoltura, intensiva e monoculturale.

  • Quali azioni intraprendere per coinvolgere e sensibilizzare gli agricoltori verso altri modi di pensare e fare agricoltura?
  • Analisi e riflessioni sulla normativa vigente che regala la coltivazione di piante ottenute con manipolazione transgenica (ovvero tra organismi con DNA distanti tra loro), revisione delle norme attuali fino alla modifica/abolizione dei TRIP’s (Trade Related Intellectual Property Rights, cioè diritti di proprietà intellettuali collegati al commercio), per la tutela e il diritto alla “sovranità alimentare” di ciascun popolo.
  • Come sostenere i “contadini custodi di biodiversità”, che producono varietà tradizionali e locali, perfettamente adattate a un ecosistema, in grado di rispondere efficacemente ai bisogni specifici del territorio in cui vengono coltivate e allevate e non essere a uso esclusivo e servile delle logiche mercantilistiche di poche multinazionali?
  • Come sostenere una ricerca libera e accessibile e soprattutto realmente correlata alle concrete esigenze della produzione alimentare in relazione al Riscaldamento Globale?
  • Come costruire un movimento sociale ampio e incisivo, al di là delle differenze, organizzando o sostenendo tutte quelle pratiche e forme di lotta a tutela della biodiversità e contro la produzione, la trasformazione, la commercializzazione e il consumo di Ogm in Italia e all’estero? Quali azioni di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo dei consumatori/co-produttori, attraverso nuove relazioni tra contadini e cittadini, anche a partire dalla prossima Expo 2015? 
  • Come condividere un’agenda comune per la tutela della biodiversità e contro gli Ogm?

6. Il lavoro bracciantile ed il caporalato in agricoltura

I braccianti salariati – e i più numerosi braccianti avventizi, “giornalieri” – hanno rappresentato un bacino di manodopera centrale per lo sviluppo del capitalismo agrario. Si è spesso trattato di masse di contadini e montanari poveri, migranti interni stagionali, che, con il loro lavoro malpagato, hanno arricchito il capitale delle aziende agrarie. Oggi, la manodopera bracciante da Nord a Sud Italia, è composta principalmente da migranti non comunitari e neo-comunitari, i quali offrono le loro braccia in cambio di quattro soldi, in una condizione di costante incertezza e precarietà lavorativa e abitativa, sotto la minaccia della disoccupazione forzata, il ricatto da parte del padrone, dei suoi caporali, del dispositivo della Bossi-Fini e sotto il peso dei prezzi bassi che le GDO pagano ai contadini .

Si sopravvive in “campi” – tendopoli-ghetto auto-costruite e spazialmente segregate – dove a stento ci si ripara da pioggia e freddo, oppure in abitazioni indegne sotto la minaccia di sgombero, sempre in condizioni sanitarie degradanti, dove l’invisibilità politica e sociale si accompagna sistematicamente a quella lavorativa. I lavoratori accampati ed ultraprecari di Canelli, Foggia, Nardò, Castelnuovo Scrivia, San Ferdinando, Saluzzo, Boreano, Rosarno vanno infatti ad ingrossare le fila di quel bacino di manodopera eccedente utile a fomentare l’economia schiavista del lavoro grigio e nero in agricoltura.

Questa è l’Italia: in Piemonte, Campania, Basilicata, Calabria, Veneto, Puglia le storie si assomigliano, perchè questo è il sistema agroindustriale su cui si fonda lo sfruttamento delle terre e del lavoro voluto dalla UE e dalle organizzazioni padronali. Questo è il capitalismo nelle campagne, la filiera dello sfruttamento, che porta il Made in Italy sugli scaffali del mondo e garantisce i profitti alla GDO.

Le risposte delle istituzioni nazionali e locali sono inadeguate e parziali, per lo più a carico del sistema socio-assistenziale e del terzo settore. Ciò è dovuto ad visione sempre e solo “gestionale”, quando non propriamente “emergenziale”, del movimento dei migranti, ad una riduzione sistematica di queste persone a mera manodopera, da includere “differenzialmente” in un mercato del lavoro segmentato, oppure da escludere temporaneamente in campi o ghetti – dispositivi di regolazione del tempo della mobilità, utili a “decelerare” il flusso di forza-lavoro migrante, in virtù del funzionamento “just-in-time” del capitalismo iperflessibile. A ciò concorrono tutti i gradi dello Stato, dalle politiche migratorie nazionali bi-partisan degli ultimi 25 anni di cui emblematico è il regime di mobilità imposto dalla Bossi-Fini, fino all’atteggiamento discriminatorio dei Comuni che negano a migrant* e rifugiat* la possibilità di iscrizione anagrafica sul proprio territorio.

Il complesso ‘umanitario’ di gestione dei flussi migratori è atto a fornire manodopera a bassissimo costo per il lavoro agricolo, come evidente nel caso del CIE di Palazzo San Gervasio e dei CARA di San Giuliano, di Borgo Mezzanone, nati in distretti in cui è alta la richiesta di mano d’opera e dove i caporali hanno libero accesso per l’approvvigionamento di questa. O, ancora,come ha dimostrato la vicenda della cd. “Emergenza Nordafrica”, laddove i rifugiati sono andati ad ingrossare le fila delle braccia di riserva nelle campagne,  fenomeno che non potrà che aumentare con i massicci sbarchi, legati a Mare Nostrum.

A ciò si aggiunge l’assenza di auto-organizzazione sindacale, particolarmente evidente in agricoltura, dove il conflitto è latente perchè i braccianti vivono una condizione lavorativa individualizzata, laddove i sindacati della “concertazione” sono  conniventi con il padronato – le cui strategie di sfruttamento/segmentazione/fidelizzazione della manodopera sono pervasive – e con la Grande Distribuzione Organizzata, che si trova al vertice della catena di sfruttamento. L’unica risposta al vincolo padronato agricoloGDO sta nell’auto-organizzazione di lavoratori e disoccupati, migranti e autoctoni, nell’unità dal basso sulle lotte concrete relative a salario, reddito, salute, abitare, contro la distruzione dei diritti del lavoro e la mercificazione della vita nelle nostre campagne.

Pensiamo, infine, che la salvaguardia della terra come i diritti dei lavoratori non possano prescindere dal ritorno ad una AGRICOLTURA CONTADINA, capace di riappropriarsi di terre, tempi e modalità di lavoro lontani dalle logiche capitalistiche.

Lavoro / Auto-organizzazione / Produzione:

  • In che misura il caporalato non è altro che un “mezzo” utile alle logiche del Capitale, e secondo quali altri principi organizzativi il Capitale può funzionare, dando comunque adito a forme pervasive di sfruttamento della manodopera bracciantile?
  • Quali sono le rivendicazioni bracciantili più immediate da mettere in campo, per costruire conflitto sociale nel settore agroindustriale, da decenni imperante in Italia ed in Europa (rivendicazione salariale, orari e condizioni lavorative, un meccanismo chiaro, di graduatoria, per le assunzioni, etc)?
  • Quali sono possibili percorsi di auto-organizzazione delle lotte bracciantili e rispetto a quali controparti? Quale l’efficacia reale delle diverse tattiche di lotta (blocchi, vertenze, scioperi)? E’ possibile costruire un fronte di lotta che colpisca la GDO ad ogni livello? Che rivendicazioni possono fungere da momento ricompositivo nelle campagne tra disoccupati e occupati, migranti e autoctoni, stagionali e stanziali, titolari di differenti status giuridici, tra cui figura sempre più quello di protezione temporanea (rifugiati, persone con protezione sussidiaria e umanitaria)?
  • L’agricoltura è sempre più settore “rifugio” per lavoratori espulsi da altri settori e territori. È possibile organizzare una mobilitazione trasversale a settori e nazionalità, che metta insieme sfruttati e disoccupati italiani, neo-comunitari e non comunitari, contro la precarietà? L’orizzonte  è quello di rivendicare “più lavoro” o piuttosto ridiscutere il significato di “lavoro” e “produzione”, partendo dalla centralità della terra nelle dinamiche di enclosures vecchie e contemporanee?
  • E’ possibile pensare al lavoro migrante come risposta per creare una filiera che parta dall’agricoltura contadina, con lo scambio di saperi e costumi diversi, fino alla distribuzione sul territorio, attraverso canali diversi da quelli che il capitalismo impone? Come legare le lotte bracciantili alle lotte contadine legate alla riappropriazione della sovranità alimentare da parte delle comunità locali?

Abitare / Spazio-campo / Cura:

  • Se i campi da un lato rappresentano la materializzazione della razzializzazione del lavoro, dall’altro prefigurano socialità alternative alla logica della proprietà privata: è proprio  nei campi che si sperimentano forme di auto-organizzazione, cura e militanza tra chi li vive e chi li attraversa. Mediante quali pratiche e rispondendo a quali bisogni si può partire dallo spazio-campo per risignificarlo, rendendolo terreno fertile per la maturazione delle lotte? Quali sono esempi fertili di contro-campi?
  • I campi sono un esempio lampante di come ogni aspetto della vita dei lavoratori sia sottoposto a valorizzazione, inclusa la sessualita’. Inoltre, la sessualita’ femminile è utilizzata dai padroni come ricatto per l’accesso al lavoro, aggiungendo un ulteriore livello di sfruttamento fondato sulla differenza sessuale. In che modo si può includere la questione del lavoro riproduttivo nella costruzione delle rivendicazioni?
  • Come si può ragionare ed agire sulla questione dell’abitare come un fattore non temporaneo, cercando di costruire soluzioni più stabili, oltre l’emergenzialità e oltre la stagione, considerato che le persone che attraversano le campagne in cerca di lavoro sono spesso costrette ad una condizione di nomadismo forzato fatto di disoccupazione ed assenza di prospettive e che lo spazio abitativo è fondamentale per la salute fisica e mentale di ogni persona?

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La questione bracciantile si pone all’interno della questione contadina e insieme occupazionale di un territorio agricolo depresso e in crisi.
Le tre cose (sfruttamento e lotta del proletariato agricolo, questione contadina e questione occupazionale), dal nostro punto di vista, non sono scindibili e quindi la questione che si pone è: che percorsi possibili mettere in campo per coniugare:
1) recupero dell’agricoltura,

2) ritorno all’agricoltura come alternativa occupazionale all’emigrazione o al supersfruttamento clientelare (per non parlare del “ritorno alla terra” come possibile risposta alla crisi anche in una chiave riappropriativa – vedi appunto terra bene comune…),

3) integrazione multietnica e sedentarizzazione… questa è la prospettiva della contadinizzazione, che in sé non può prescindere dalla questione della riconversione colturale – perché il modo di produzione in agricoltura cambia anche in base a questo, una filiera monocolturale orientata all’esportazione è fisiologicamente dipendente dal mercato, le sue speculazioni e oscillazioni, e, seppure lascia margini ad esperienze di nicchia, in generale trova nella grossa impresa di commercializzazione l’unica realtà in grado di sostenere costi e – appunto – oscillazioni, facendo leva su economie di scala – quantità – da una parte (quindi assetti fondiari latifondistici o controllo della produzione anche quando non in proprietà diretta) e abbassamento dei costi di produzione dall’altra(essenzialmente lavoro, ma anche logistica e trasporti…).
Quindi convertire significa una produzione agricola diversificata, che intanto risponda anche a un’istanza di auto-sussistenza e secondariamente a un mercato locale, con possibilità di filiera sostenibile, raccordata ai mercati esterni ma prima di tutto rivolta ai consumi locali (si pensi alla passata di pomodoro o al pane o alla pasta…), secondo un auspicabile processo virtuoso di distribuzione diffusa del lavoro e del reddito (fare il grano e la pasta e venderla in loco significa che la terra si recupera per coltivarla e ci lavora chi miete e vende, ci lavora il mugnaio, ci lavora il panificatore, il consumatore locale ha un prodotto accessibile e di qualità garantita… ci guadagna il territorio perchè i soldi ricircolano localmente invece di andare fuori… nel caso della pasta idem…).
Resta aperta la questione del rapporto col piccolo commercio:
• è possibile un’alleanza?
• non sarebbe più praticabile una dimensione di spacci autogestiti?
• sono possibili entrambe le cose?
Optare per questa strategia significa non credere che siano possibili margini di avanzamento per la condizione operaia in agricoltura, poiché la fase di sviluppo capitalistico internazionalizzato del settore non consente di mettere in discussione la politica dei bassi prezzi (combinazione di consumo di massa, economia di scala e sfruttamento lungo tutta la filiera su cui si realizzano i margini di profitto). Quindi ogni lotta migliorista, es. contro il lavoro nero, o resterà lettera morta – vedi legge contro il caporalato – o, se efficace, introdurrà degli sviluppi nel modo di produzione orientati a riguadagnare in produttività quanto perso in sfruttamento, quindi più meccanizzazione, più controllo diretto dei fondi, più grandi aziende, meno lavoratori si chiama razionalizzazione capitalistica.
I piccoli scompariranno del tutto e probabilmente lo sfruttamento sarà solo meglio vestito, ma qualitativamente, se non quantitativamente, immutato (si vedano aziende anche considerate modello dell’agroindustria locale che impiegano sistematicamente manodopera inquadrata e retribuita a part time per lavoro full time…). cioé: siccome non siamo in una fase espansiva ma decadente, le prospettive della lotta operaia di necessità non possono essere progressive… al massimo di resistenza. al massimo si può scagliare una migliore sistemazione per le condizioni di vita, che consentirebbe anche una minore ricattabilità e forme meno cruente di sfruttamento come il caporalato (se non hai bisogno di qualcuno che ti trova il lavoro perché il sistema di collocamento funziona, perché è meno dispersa la dinamica d’impiego – non tanti microcontadini che ti prendono per qualche giorno ma poche mediograndi aziende – se c’è una mobilità garantita e meno isolamento residenziale… il caporalato muore o meglio si trasforma nella sua forma legalizzata/edulcorata delle cooperative come ci sono nella logistica).
Ecco perché la lotta deve procedere contemporaneamente sui due fronti:
1. nell’immediato per le condizioni immediate delle masse bracciantili – facendo capire ai territori che questo ha ricadute positive e non negative… perché se queste masse sono meno disagiate tutto il territorio vivrà meno degrado;
2. nel medio e lungo termine per la riappropriazione contadina.
Qui c’è un passaggio politico fondamentale e controverso: la dimensione strategica della lotta bracciantile non è transterritoriale ma territoriale, nelle prospettive della lotta contadinista sul territorio si colloca l’orizzonte strategico a lungo termine della lotta bracciantile.
qui si pone la grossa questione: qual’è il rapporto tra ricomposizione di classe e ricomposizione popolare a base territoriale? qual’è il rapporto tra generale e particolare in quest’ottica? quale la funzione delle reti?

7. L’allevamento: una sfida di compatibilità economica per un cibo sano

Da quando l’uomo ha deciso di condurre una vita stanziale gli animali hanno sempre avuto un ruolo chiave nel complesso agricolo. Per poterne discutere occorre premettere che l’argomento è complesso e spinoso. Molti hanno scelto di non consumare prodotti animali e carne per ragioni etiche personali o per motivi di sostenibilità ambientale. Ma è anche vero che molti altri hanno scelto di essere consapevoli verso i prodotti animali di cui si nutrono. Nel rispetto delle diversità sensibili di ognuno, la proposta di discussione sull’allevamento tende alla comprensione dei problemi e all’individuazione di soluzioni che possano migliorare la vita di tutti gli esseri umani e animali, nonché dell’ambiente in cui viviamo. E’, quindi, divenuto necessario iniziare un confronto all’interno di Genuino Clandestino sull’argomento.

L’allevamento può essere considerato un tassello fondamentale nel sistema agricolo contadino? Si allevano moltissime specie animali e per gli scopi più diversi, certo è che la mercificazione degli alimenti ha snaturato l’utilità primordiale dell’allevamento, generando comportamenti disumani verso gli animali e l’ambiente. è sempre più evidente che negli allevamenti industriali e spesso anche nei piccoli si consumano le peggiori porcate agricole, dalle stalle con decine di migliaia di capi ammassati in pochi metri quadri, nutriti con pseudo-alimenti come le farine animali e gonfiati con ogni tipo di ormoni e steroidi, alla distruzione di intere aree geografiche per la produzione di foraggio e mangimi; le implicazioni dell’allevamento industriale sono moltissime!

Tanti contadini e allevatori hanno però deciso di sfidare il sistema industriale costruendo aziende agricole a ciclo chiuso all’interno delle quali gli animali sono parte dell’ecosistema, contribuiscono alla rigenerazione delle risorse naturali producendo, allo stesso tempo, sostentamento per i produttori e cibo sano per tutti. Un ostacolo però che si presenta inevitabilmente è costituito dal groviglio di leggi e normative, nonché dalla burocrazia infinita che riguarda ogni tipo di allevamento: dai registri animali alle etichette.  le  norme sanitarie sulle  trasformazioni costringono spesso l’allevatore “responsabile” a lavorare nell’illegalità.

  • È quindi possibile allevare in modo etico e responsabile?
  • Quanto è economicamente sostenibile allevare?
  • Quali sono le norme e le leggi che stritolano i piccoli allevamenti contadini?
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